Disuguaglianza sanitaria: ricerca e innovazione unica cura

Disuguaglianze sanitarie tra Nord e Sud, fuga dei cervelli e carenza di medici: ricerca e innovazione unica “cura”. I suggerimenti dei ricercatori al governo dalle pagine di Lancet Public Health.

Non una semplice denuncia di carenze ma una proposta di soluzioni possibili. I malanni del servizio sanitario nazionale possono avere una sola possibile cura, che si esprime con due parole: ricerca e innovazione. Questa la ricetta (non medica) che abbiamo provato ad inviare al Governo dalle pagine di Lancet Public Health, come gruppo di medici, ricercatori e docenti animati dalla stessa passione per il Mezzogiorno e per l’universalismo delle prestazioni garantite dal nostro Servizio Sanitario Nazionale italiano.

È questo il momento di agire. Quel che serve è una grande iniezione di ricerca e ricercatori in maniera capillare nel nostro Servizio Sanitario Nazionale – non solo medici ma anche biologi, biotecnologi, farmacisti, ingegneri biomedici e così via – con il loro carico di innovazione scientifica e tecnologica, fino a raggiungere tutti i piccoli ospedali della periferia italiana, gli ambulatori ASL e i gli studi degli specialisti convenzionati e dei medici di medicina generale. È questa l’unica via per superare l’insieme di problemi che affliggono la sanità e al contempo l’Università italiana. La qualità e l’attrattività del sistema sanitario italiano per gli operatori sanitari e per i pazienti possono essere migliorate solo creando uno stretto legame tra assistenza (cure) e ricerca, nell’ambito di un contesto etico e meritocratico.Puntare su ricerca e innovazione è l’unica soluzione per ridurre le disparità sanitarie. Oltre mezzo milione di cittadini italiani si spostano oggi dal Sud al Nord Italia perché credono di ricevere cure di migliore qualità laddove queste si fa ricerca, che viene associata ad una sanità d’eccellenza.

Arginare la fuga dei cervelli vuol dire fornire ai giovani che formiamo nelle Università Italiane a spese dello Stato una prospettiva di immediato inserimento a supporto dell’erogazione delle cure e della prevenzione. Se migliaia di medici (circa 10.000) e ricercatori italiani hanno lasciato il Paese negli ultimi decenni è infatti a causa della carenza di opportunità, complessità burocratiche nelle procedure di reclutamento, salari inadeguati e scarse prospettive di carriera sulla base di risultati misurabili (vale a dire “meritocrazia”). Una buona dose di ricerca scientifica nel SSN potrebbe aumentare anche l’eticità e la meritocrazia del sistema, richiamando al contempo anche professionisti dall’estero a lavorare nel nostro Paese. Per quanto riguarda la carenza di medici e specialisti, il suggerimento al Governo consiste nell’applicare correttamente lo spirito della legge introdotta negli anni ’90 per l’accesso programmato a Medicina, il che non significa semplicemente tagliare il numero degli studenti universitari che aspirano a diventare medici, ma programmare il numero di futuri laureati sulla base delle previsioni di pensionamenti e carenze.

Allo stesso tempo, è necessario garantire l’accesso ai medici neolaureati a Scuole di Specializzazione entro uno o due anni dalla fine degli studi, aumentando il numero delle borse disponibili ma anche ripensando l’attuale sistema molto simile a una lotteria nazionale che, per evitare le ingiustizie del passato e senza porre fine alle liste d’attesa, ha drammaticamente ridotto le possibilità di scegliere indirizzi specifici all’interno delle scuole di specialità – che una volta erano garantiti dalla tipologia di studi scientifici e interessi clinici dei direttori – e rende spesso molto difficile seguire la propria vocazione, producendo numerosi trasferimenti con relativa perdita di centinaia di borse ogni anno.
Tutti gli attori del sistema sanitario, dai medici di medicina generale, agli specialisti, infermieri e personale amministrativo, dovrebbero essere coinvolti in attività di ricerca col supporto di giovani borsisti o giovani assunti per la raccolta dei dati delle cartelle cliniche, introducendo soluzioni tecnologiche innovative in tutti i contesti ed aumentando il livello (attualmente basso) di digitalizzazione, telemedicina, e gestione dei “big data”per l’assistenza domiciliare, in particolare nei pazienti con patologie croniche e in quelli più anziani.
A conti fatti – riducendo la necessità di ospedalizzazioni dei malati cronici e considerando i costi sostenuti dalle famiglie per spostarsi in altre regioni – questo tipo di approccio dovrebbe rivelarsi più sostenibile anche dal punto di vista economico. Infine, anche le società scientifiche e le associazioni professionali dei medici (gli ordini provinciali e la federazione nazionale FNOMCEO) sono chiamate ad assumere un ruolo nuovo e di maggiore protagonismo per attrarre talenti, finanziando ad esempio posti aggiuntivi in dottorato di ricerca (come ha fatto l’Ordine dei medici di Lecce, apripista nazionale nel finanziare un dottorato in Salento dedicandolo all’autismo), promuovendo gemellaggi internazionali di ospedali e generando salute su larga scala a livello locale, soprattutto nelle aree svantaggiate.
Solo sforzandosi di adottare questo tipo di percorsi, volti a promuovere la salute individuale e collettiva, il Governo italiano potrà migliorare la qualità delle cure ovunque (anche nelle località periferiche), aumentare la coesione sociale, la fiducia dei pazienti (con riduzione dei contenziosi medico-legali)e la motivazione dei medici nella piena attuazione della loro missione.

 

Prisco Piscitelli è medico epidemiologo. Cattedra UNESCO in Educazione alla Salute e allo Sviluppo sostenibilee vicepresidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA). Prisco inoltre è ricercatore ISBEM (Bruxelles) e specialista in Igiene e Medicina Preventiva (ASL Lecce).