Un bivio oltre il Covid: quale orizzonte per l’Unione Europea

L’Unione Europea è a un bivio. Come già al tempo dell’ondata migratoria attraverso il Mediterraneo e i Balcani, che ha innescato la Brexit quando gli inglesi videro sorgere la città dei disperati a Calais (pronti ad attraversare la Manica), l’emergenza Coronavirus sta rivelando l’inadeguatezza dell’attuale assetto istituzionale dell’Unione Europea a 27 nel fronteggiare qualsiasi tipo di problema che richieda decisioni politiche. L’allargamento voluto dall’allora Presidente della Commissione Romano Prodi (coi trattati di Nizza) di quella che ai tempi d’oro fu definita “la casa comune europea” senza prima la definizione di nuovi meccanismi di funzionamento della macchina decisionale sta mostrando oggi tutte le sue criticità.

Incompiuto federalismo europeo

Solo due anni fa abbiamo celebrato in pompa magna il Manifesto di Ventotene, redatto nel un carcere fascista dell’isola da Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Era il 1941. Fu poi Winston Churchill, al termine del suo mandato da primo ministro britannico a teorizzare (come emerge dalla lettura della sua “Storia della Seconda Guerra Mondiale”) e predicare in giro per il mondo la necessità di un nucleo federale europeo, poi realizzato da Schuman, De Gasperi e Adenauer. Ma già Salvemini metteva in guardia dal pericolo di realizzare una costruzione astratta non pienamente federale, che si risolvesse in ultima analisi in una giustapposizione di Stati sovrani nazionali, ciascuno dei quali concentrato sui propri interessi. Un’Europa di questo tipo, secondo Salvemini, era destinata ad un inesorabile fallimento. Tra i nodi dell’incompiuto federalismo europeo emerge in questi mesi, dopo quello delle politiche migratorie e della politica estera comune (che continua ad essere un fantasma nonostante la nomina di un unico alto rappresentante) anche l’incapacità di una comune gestione della tutela della salute.

Quando l’Italia dichiarava in solitaria lo stato di emergenza nazionale chiudendo i voli con la Cina già da fine gennaio, non fu chiusa al traffico aereo con Pechino l’intera area Shenghen, ovvero i confini europei rimasero permeabili a un virus che si muoveva sulle gambe di persone asintomatiche. Ogni Stato europeo adottava criteri diversi per la definizione e il conteggio dei casi di Covid-19 oltre a strategie variabili nell’esecuzione dei test diagnostici (variabilità che in Italia è addirittura regionale) e nel combattere l’infezione. Se Boris Johnson si è ricreduto dopo aver rischiato personalmente la vita, la Svezia ha davvero deciso di puntare a far circolare il virus fino al raggiungimento dell’immunità di gregge, che però si ottiene solo quando il 95% della popolazione ha sviluppato anticorpi specifici (proprio come avviene per i tassi di copertura vaccinale, dopo la perdita di tante vite umane.

Approccio One Health

Col pretesto che la sanità e l’organizzazione dei servizi sanitari sono competenza degli Stati, l’Europa ha abdicato ad occuparsi della salute dei suoi cittadini (se una cittadinanza europea può essere ancora vagheggiata). Non è un caso se le riunioni dei Ministri della Salute a Bruxelles sono praticamente facoltative e quasi per nulla partecipate (si contano in media 4 o 5 presenze di ministri in carica ad ogni incontro), diversamente da quanto avviene per i meeting economico-finanziari. In tema di determinanti ambientali della salute, l’insufficiente attenzione di Bruxelles appare ancora più evidente: troppo poco si spinge per concretizzare il cosiddetto approccio “One Health”, una visione unica della salute umana concepita come interdipendente dallo stato di tutto l’ecosistema e degli altri esseri viventi, in chiave di prevenzione ad esempio delle resistenze batteriche o delle zoonosi frutto dei salti di specie che si sono ipotizzati proprio nel caso del nuovo coronavirus (prima che emergesse la possibilità di un incidente di laboratorio virologico, ipotesi impossibile da escludere o da confermare nel contesto dell’impenetrabile Stato-Leviatano cinese). Anche il sistema di finanziamento della ricerca e della libera iniziativa dei ricercatori, più che mai necessaria per fronteggiare questa pandemia, non è stato sufficientemente svincolato dalla burocrazia che lo contraddistingue da sempre e che privilegia i grandi centri universitari del centro-nord Europa. Al contrario, mai come oggi sarebbe stato necessario rendere immediatamente accessibili i fondi di “Ricerca e Innovazione” (i cosiddetti RIA) richiedibili senza passare per i “Bandi Europei”, come è espressamente previsto in caso di emergenza sanitaria.

Insomma, l’assetto indefinito che abbiamo dato alle istituzioni europee (per alcuni aspetti simile ai livelli di sovranità multipla del Medio-Evo in cui convivano diversi livelli di autorità frammentate), nel mentre ci vincolano in una briglia di obblighi – che in molti casi hanno anche l’effetto di stimolare verso l’alto la qualità delle normative in una molteplicità di settori, norme che diventa obbligatorio recepire per gli Stati più recalcitranti come il nostro – dall’altro non riescono a definire con rapidità ed efficacia le necessarie risposte alle diverse crisi che si susseguono nell’epoca della globalizzazione. I tempi dell’Europa sono sempre lenti e inadeguati dinanzi a ogni sfida perché Bruxelles non può essere altro che un luogo di perpetua mediazione tra interessi specifici nazionali perseguiti da ogni Stato membro senza nemmeno l’ombra di una prospettiva di “casa comune”, di “bene comune europeo”.

Indecisione nell’affrontare l’emergenza sanitaria

Di qui le 27 vie d’approccio all’emergenza Covid, la mancata condivisione di materiale e operatori sanitari, l’indecisione nel disporre aiuti economici immediati sui conti correnti di famiglie, imprese e lavoratori che invece sono stati immediatamente varati dallo Stato compiutamente federale per antonomasia americano (gli USA di Trump, con tutti i limiti arcinoti di questa presidenza). Parafrasando il motto degli Stati Uniti d’America – che recita “E Pluribus Unum” (dei molti ne abbiamo fatto uno) – è evidente che Gaetano Salvemini aveva ragione: solo un’Europa davvero federale che si occupi degli interessi di tutti gli Europei può avere futuro.  

Purtroppo questa evidenza, che è sotto gli occhi di tutti, diviene prorompente proprio nel momento in cui l’incapacità di far fronte al susseguirsi delle crisi, a cominciare da quella dei migranti, ha fatto risorgere sovranismi di ogni tipo, minando di fatto alla base la possibilità di una svolta federalista in Europa. Tuttavia, l’Europa è fatta di persone che mai come in questi decenni hanno potuto muoversi liberamente da una capitale all’altra ed è sul sentimento europeo dei cittadini che nuovi orizzonti per l’Europa vanno costruiti, liberando energie nuove e creative, quel richiamo alla creatività che Papa Francesco ci ha esortato ad adottare nelle numerose esortazioni che ha dedicato all’Europa in questa Pasqua mancata.

Dalle pagine di Ricerca & Salute proveremo a dare il nostro contributo di idee e di soluzioni percorribili.  

 

Prisco Piscitelli – Cattedra UNESCO in Educazione alla Salute e allo Sviluppo sostenibile 

Medico epidemiologo e vicepresidente Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), Ricercatore ISBEM (Bruxelles) e Specialista in Igiene e Medicina Preventiva (ASL Lecce).