Lenzi, “La ricerca italiana è fatta da tante eccellenti formichine, ma per le scoperte decisive occorrono più investimenti”

Intervista al prof. Andrea Lenzi, presidente del Comitato Nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita

 

“Siamo il Paese della cultura e fin dai tempi antichi ci occupiamo di ricerca con risultati straordinari, abbiamo quindi dalla nostra parte la forza della Storia”. È la premessa che il professore Andrea Lenzi, sessantasei anni, endocrinologo e direttore del dipartimento di Medicina sperimentale dell’Università La Sapienza di Roma, fa alla riflessione sulla stato della ricerca in Italia.

Professore, come va la ricerca nel settore medico nel nostro paese?

La ricerca in Italia va molto bene, tuttavia, stiamo attraversando enormi difficoltà economico-finanziarie e in periodi di crisi la ricerca scientifica, erroneamente, viene considerata un costo e non un investimento, diventando un settore al quale fare dei tagli. Questo ha fatto sì che in Italia, negli ultimi anni, ci sia stata una riduzione dei finanziamenti per la ricerca scientifica che ha interessato tutte le aree. L’area sanitaria, e della salute in generale, è stata inevitabilmente la più colpita in quanto gli investimenti erano più forti rispetto ad altri comparti. La fortuna, per noi operatori del settore, è che, anche grazie alla capacità tutta italiana di fare tanto con poco, siamo riusciti a mantenere standard elevatissimi di produttività scientifica.

Nei suoi anni alla presidenza del Comitato nazionale dei garanti per la ricerca del MIUR ha avuto modo di approfondire quali sono le principali criticità che affliggono la ricerca in Italia?

Sicuramente l’assenza di una visione unica e l’esistenza di una pluralità di centri di decisione e di indirizzo rende più difficile per l’Italia competere a livello globale. È evidente che mancano investimenti forti e soprattutto una strategia comune tra la politica e i ricercatori stessi. Oggi, infatti, ci troviamo a gareggiare con colossi del calibro degli Stati Uniti e della Cina, che non solo hanno uno straordinario potenziale dal punto di vista delle risorse disponibili, ma anche una notevole quantità di risorse umane dedicate alla ricerca. In particolare in ambito scientifico, esistono due modelli possibili di ricerca: quella “a formica” e quella “a canguro”. Il primo è composto dalla miriade di sperimentazioni e pubblicazioni scientifiche che, come tanti piccoli mattoni, consentono progressi piccoli ma costanti; quella “a canguro” è la scoperta decisiva e, a volte, improvvisa e inattesa (la penicillina per fare un esempio storico) che ti fa fare il salto di qualità, con un cambio di paradigma, che permette anche un’alta redditività. Ecco, noi siamo molto competitivi per la quantità di pubblicazioni scientifiche prodotte, ma poco, soprattutto a causa della penuria di investimenti in ricerca rispetto agli altri grandi player mondiali, sulle grandi scoperte.

Un’Agenzia Nazionale per la Ricerca potrebbe migliorare la situazione?

Avrebbe il grande vantaggio di portare avanti una strategia. È un diritto-dovere dello Stato definire una programmazione e un indirizzo alla ricerca, stabilendo anche delle priorità d’interesse: nano o bio tecnologie, intelligenza artificiale e molto altro. Un’Agenzia unica favorirebbe anche aree di impegno diverse da quella della salute, eppure decisive per il paese, come ad esempio i beni culturali. Oggi, infatti, ogni volta che viene pubblicato un bando per la ricerca, l’area salute ottiene buona parte delle risorse, una prassi che ho avuto modo di osservare anche quando ero presidente del Comitato nazionale dei garanti per la ricerca. L’area della salute è fortemente invasiva e preminenete, perché tocca un argomento al quale la popolazione è molto sensibile.

E com’è la situazione delle infrastrutture di settore in Italia?

Purtroppo gran parte delle strutture di ricerca sono obsolete. Oggi che la tecnologia corre velocissima anche i macchinari per la ricerca hanno bisogno di investimenti sostanziosi per essere aggiornati. Un discorso che riguarda da vicino la medicina personalizzata e la medicina di precisione, due branche della sanità di grande attualità, alla luce dell’elevata domanda di targetizzazione richiesta dall’utenza, in particolare ospedaliera.

Professore, lei è anche il presidente del Comitato Nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita. Di cosa si tratta?

Innanzitutto, va detto che in Italia riconduciamo sotto il termine, biosicurezza, due concetti diversi: biosecurity e biosafety. La biosecurity riguarda la sicurezza da inquinamento batteriologico o radioattivo. Biosafety è tutto ciò che riguarda l’ambiente, dagli interferenti endocrini alla sicurezza del suolo e dei mari. Le biotecnologie sono lo strumento con cui oggi riusciamo a combattere la sfida del rinnovamento tecnologico e l’Italia ha tra i migliori biotecnologi d’Europa,ragazzi che però dopo la laurea non trovano una collocazione adeguata. Le scienze della vita ricomprendono temi molto eterogenei, dalla ricerca in ambito clinico fino alla bioecononomia o economia circolare. Proprio l’economia circolare è stata al centro del discorso d’insediamento del Presidente del Consiglio Conte e del Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. In un mondo ideale lo scarto non dovrebbe esistere ed è un tema di assoluta attualità.

Il sistema sanitario nazionale presenta diversi squilibri: in particolare quello tra nord e sud. Cosa ne pensa, è possibile qualche intervento?

Il sistema universalistico non è sostenibile così com’è. Bisognerà cambiare qualcosa nei prossimi anni per poter continuare a usufruire di questo privilegio. È però evidente che degli squilibri attualmente esistono e che un tipo di sanità più competitiva, come quella del nord, rende più efficace il risultato dell’assistenza stessa. Le eccellenze professionali esistono su tutto il territorio senza distinzioni, ma laddove c’è più attenzione alla spesa, agli investimenti e alla legalità, l’intera infrastruttura funziona meglio. In conclusione, manchiamo di una regolamentazione adeguata che faccia sì che l’assistenza sia davvero efficace.

 

Andrea Lenzi è medico specializzato in endocrinologia e andrologia e fisiopatologia e professore ordinario di Endocrinologia all’Università di Roma La Sapienza. Lenzi è anche autore e coautore di circa 800 pubblicazioni di cui oltre 350 articoli su riviste internazionali. Oltre a essere presidente del Comitato nazionale di biosicurezza, biotecnologie e scienze della vita alla Presidenza del Consiglio dei Ministri è stato presidente del Comitato nazionale dei garanti per la ricerca del MIUR e del Consiglio universitario nazionale (CUN) e dell’Associazione-conferenza permanente dei presidenti di CLM in Medicina e Chirurgia.

 

 

di Alessandro Sansoni e Maria Neve Iervolino