Malattie rare: ricerca scientifica salva la vita a piccola paziente di Roma

Trattamento farmacologico sperimentale e trapianto di midollo salvano la vita a piccola paziente del Bambino Gesù di Roma affetta da malattia rara.

I ricercatori dell’ospedale pediatrico di Roma sono riusciti a identificare la mutazione del gene responsabile della patologia ultra-rara che ha colpito la bambina presa in carico dal Bambino Gesù di Roma a sole due settimane dalla nascita.
La sua storia clinica e i risultati della ricerca sono stati pubblicati sul Journal of Experimental Medicine.

Marco Tartaglia, coordinatore dello studio e responsabile del laboratorio di Genetica Molecolare e Genomica Funzionale, ha dichiarato: “Identificare una possibile mutazione come causa di malattia rappresenta però solo il primo passo. Per dimostrarne il ruolo causativo è infatti necessario attivare una serie di studi di validazione funzionale che consentano di capire in che modo la mutazione identificata possa alterare la funzione della proteina e conseguentemente i processi cellulari e fisiologici implicati nella malattia”.

La piccola Diana viene inserita nel programma di ricerca dedicato alle malattie rare e senza diagnosi basato sull’uso delle nuove tecnologie genomiche, finanziato dalla campagna Vite coraggiose della Fondazione Bambino Gesù onlus.

Grazie alle piattaforme di sequenziamento di ultima generazione, i ricercatori hanno identificato una mutazione potenzialmente implicata nella malattia, su un gene chiamato CDC42 di cui erano state precedentemente individuate dagli stessi ricercatori dell’Ospedale altre mutazioni associate a diverse malattie del neurosviluppo.
Inizia così la ricerca incrociata sui database mondiali di malattie rare.
L’identificazione di più pazienti con questa mutazione e con quadri clinici sovrapponibili e la dimostrazione dello specifico impatto funzionale della variante arriva dopo due anni di ricerche. Gli studi permettono di confermare che la mutazione del gene CDC42 è effettivamente la causa della sua malattia, e la malattia viene chiamata sindrome NOCARH, Neonatal-Onset Cytopenia with dyshematopoiesis, Autoinflammation, Rash and Hemophagocytosis.

Differentemente da quanto si osserva nelle cellule di soggetti sani (a sinistra), la mutazione che causa la sindrome NOCARH blocca la proteina CDC42 (in verde) in uno specifico comparto intracellulare (in rosso), come mostrato a destra.

 

La vicenda clinica

Diana arriva all’ospedale Bambino Gesù di Roma a due settimane dalla nascita. La pelle piena di macchie, febbre alta continua, gravi carenze di cellule nel sangue (globuli rossi, globuli bianchi, piastrine). Seguita dai medici di onco-ematologia e reumatologia, la bambina passa i primi sette mesi di vita in isolamento in Ospedale, nel tentativo di identificare la sua malattia o almeno tenerla sotto controllo. Il primo successo arriva con il farmaco biologico Anakinra, che riesce finalmente a contenere gli eccessi infiammatori che si presentano da subito come molto gravi. Tuttavia dopo pochi mesi si verificano riaccensioni auto-infiammatorie, emorragie intestinali e crisi convulsive. I medici sono quindi costretti a cambiare terapia.
Nel 2017 la bambina presenta una ricaduta infiammatorie con un infarto intestinale. Nonostante la sua condizione, si decide di sottoporla a intervento chirurgico. Dopo 4 ore d’intervento la bambina torna in rianimazione in condizioni critiche: ha sviluppato infatti una iper-infiammazione.

I clinici decidono di usare, in via compassionevole, un altro farmaco sperimentale, l’Emapalumab, usato solo su 15 bambini prima di Diana, nessuno dei quali con la sua malattia. Si tratta di un anticorpo monoclonale che serve a controllare l’esasperata risposta infiammatoria nei pazienti con HLH (Linfoistiocitosi Emofagocitica primaria). L’Ospedale Bambino Gesù coordina le sperimentazioni nel mondo di questo farmaco, che poi sarà usato con successo per Alex, il bambino trasferito a Roma da Great Ormond Street Hospital di Londra nel novembre 2018 e accompagnato al trapianto di cellule staminali emopoietiche dal professore Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Onco-ematologia e terapia cellulare e genica dell’Ospedale della Santa Sede.
Il farmaco funziona anche con Diana, persino oltre le aspettative: la fase acuta passa in pochi giorni e la bambina sta subito meglio.
Si può quindi procedere con la fase finale della terapia: il trapianto di midollo. Diana non ha un donatore compatibile e si deve quindi ricorrere al padre attraverso trapianto aploidentico: una procedura complessa basata sulla manipolazione delle cellule staminali emopoietiche prelevate dal donatore, per privarle selettivamente di tutti gli elementi che potrebbero aggredire l’organismo del ricevente.

Il dottor Fabrizio De Benedetti, responsabile di Reumatologia del Bambino Gesù ha ricordato: “I risultati delle lunghe ricerche in laboratorio ci hanno permesso di applicare la terapia in modo personalizzato, mirando al meccanismo alla base della sua malattia”.

 

I casi nel mondo

Compreso quello di Diana, sono quattro i casi al mondo noti in questo momento un quinto paziente, è stato identificato in seguito da un team di ricercatori statunitensi. Nel 2016 si scopre un altro paziente, già deceduto, con lo stesso quadro clinico e la stessa mutazione negli Stati Uniti. Poco dopo vengono scoperti altri due pazienti con la stessa mutazione: uno al Karolinska Institutet di Stoccolma e uno ancora in Italia al Bambino Gesù. Differentemente dalle altre malattie causate da mutazioni in CDC42, la condizione di Diana è essenzialmente limitata alle cellule del sangue. Sulla base di questa considerazione e dei dati prodotti dalla ricerca, si ritiene che il trapianto di midollo, quindi la sostituzione delle sole cellule del sangue, possa sconfiggere la malattia.
Il trapianto è stato un successo e oggi Diana è guarita, non presenta più segni della malattia.